fuori collana 54
Giugno 2012
24 x 17 cm
77 pagine
20 euro
Di questo volumetto sono stati ultimati presso la tipografia Grafiche Artigianelli mille esemplari, centoventi (100+XX) dei quali contengono, fuori testo, una litografia di Letizia Cariello, stampata a mano su carta Tintoretto Fedrigoni.
Nota di Franco Brevini. Quattordici disegni di Letizia Cariello. Edizione in dialetto di Sirmione con testo italiano a fronte.
Franca Grisoni
Vive a Sirmione, dove è nata nel 1945. Scrive nel dialetto di Sirmione.
Ha pubblicato La böba, San Marco dei Giustiniani, 1986 (Premio Bagutta opera prima); El so che te se te, Pananti, 1987 (Premio Empoli); Loter, Einaudi, 1988; Ura, Pegaso, 1993; De chi. Poesie della penisola di Sirmione, Scheiwiller, 1997 (Premio Viareggio); La giardiniera, LObliquo, 2001; Lala, Liboà, 2005 (Premio Biagio Marin); Passiù, LObliquo, 2008 (Sacra rappresentazione in versi rappresentata a Brescia a teatro e in Duomo); Poesie, Morcelliana, 2009 (Premio Salvo Basso); Compagn, Morcelliana, 2012.
Ha pubblicato prose a commento di opere di scrittori e artisti, fra cui Appunti sul far critica di Cesare Garboli, Pananti, 1992; Nel tempo di Mattioli, con uno scritto di Cesare Garboli, LObliquo, 2005. Collabora a riviste e quotidiani e cura letture di testi sacri e poesia, con progetti promossi dal Centro Teatrale Bresciano - Teatro Stabile di Brescia e altri enti culturali.
Letizia Cariello
Dice quello che pensa e fa, con le sue mani, quello che vuole.
Basterebbe questa formula sintetica per racchiudere il suo lavoro artistico. Ma ovviamente cè molto di più come capita, ma non sempre in questo ambito, quando il lavoro, scevro da ipocrisie o finzioni, è sineddoche della vita, dove nulla va perduto e tutto si accumula. E così la piscina e il nuoto scorrono come luogo ineluttabile di ispirazione e conferma delle idee, la famiglia è punto strategico di osservazione di ciò che vale, lAccademia è loccasione di un confronto con i giovani sul metodo, ma senza teorizzazioni e quindi antiaccademico.
Tutto ciò riposa nel suo sguardo che vede limpercettibile e restituisce naturalmente poesia, la cosa più necessaria agli uomini, che finalmente possono anche mangiarla purché in contenitori adeguati.
A partire dallormai lontano esordio degli anni Ottanta la Grisoni ha lavorato sul recupero di una dimensione del corpo, che poco ha a che fare con lo splendido involucro angelicato o erotizzato del desiderio maschile. In qualche misura complementare a quella maturata intorno a una corporeità che mi verrebbe di dire ontologica, è stata la sua tormentata riflessione sul tema dellaltro, del riflesso speculare o del fondo oscuro, insomma del «compagn», parola che in dialetto significa sia «compagno» che «simile».
Con questa Medea lautrice procede nel suo scavo, impugnando senza alcuna soggezione uno dei miti più illustri del mondo ellenico, ma - ancora la ridda di io e non-io - proseguendo nel contempo un dialogo con il marito scomparso, che della Medea di Euripide aveva scritto su «Paragone». Proveniente da una regione legata ai riti della terra e della fertilità («la me tera / piena de sensi / n endó depositacc...»), la barbarica Medea è lemblema di una femminilità che stinge nella magia. La tenebrosa figlia di Eete è immersa negli aspetti più materiali dellesistenza e possiede un sapere corporeo, che sconta fino in fondo nella ferita inflittagli da Giasone.
Ma proprio ciò che è stato storicamente svilito e disprezzato diventa nel poemetto di Franca Grisoni la chiave di una grandiosa reinterpretazione della catena di inganni perpetrati e diffusi dal potere. La sua Medea è un personaggio dai forti connotati agonistici, è una figura cristica che svela le ipocrisie del mondo patriarcale e lo fa con tutto il proprio corpo. È depositaria di un arcaico linguaggio di sofferenza, che da sempre, dallisteria freudiana agli attuali disturbi alimentari, è stato diagnosticato in termini patologici.
Con una scelta che conferma una volta di più la piena dignità dellesecrata categoria di «poesia femminile», Franca Grisoni non concepisce lo scrivere come attività narcisistica, ma come atto di relazione, come empatia con il mondo, come luogo sacrificale in cui precipitano i contenuti più dolorosi. Anche il dialetto diventa lingua di una memoria inscritta nella carne. Tramanda antichi saperi consegnati forse al balbettamento dellemotività, forse a nenie, a lamenti funebri, a canti arrochiti, che sembrano appartenere alla memoria biologica più che a quella culturale.
Franco Brevini